La prima cosa che colpisce di Valentina Tomirotti è, senza dubbio, la determinazione. La netta e pungente consapevolezza che muove ogni sua affermazione o scelta.

Oggi parliamo di identità, come sai. Prova a descriverti in poche parole.

Sono nata a Mantova nel 1982, figlia unica. Donna, bianca, eterosessuale, femminista e di sinistra (la sinistra non pagliaccia però, quella del popolo orientata all’ascolto e alla soluzione).

Nel 2006 mi sono laureata in Scienze della Comunicazione e giornalismo a Verona. Nel 2008 sono diventata giornalista pubblicista. Oggi scrivo su La Repubblica e Vanity Fair occupandomi quotidianamente di disabilità attraverso la comunicazione.

Questa è la tua identità?

Distinguiamo subito l’identità dall’identikit. Per identikit, infatti, mi riferisco all’incasellamento che la società utilizza come modus operandi perché è eterogenea e abituata a dare un nome a qualsiasi cosa. Del resto, questa è una delle conseguenze di come la nostra lingua è strutturata: una lingua binaria e molto sessualizzata (che divide in maschile e femminile) può solo descrivere una società che sia binaria. E conseguentemente questo ricade anche nei comportamenti sociali che adottiamo.

Come si chiama la tua malattia?

Displasia diastrofica. È una malattia che ho dalla nascita, genetica, ma non degenerativa. Dall’ecografia morfologica sarebbe stato possibile identificare la malattia, ma i medici non se ne accorsero. È stato con il parto cesareo che mia mamma ha trovato “la sorpresa di compleanno”. Siamo nate lo stesso giorno! Mamma e papà sono sposati dal 1978 e sono proprio una di quelle coppie che non esistono più.

Forse la tua nascita li ha uniti ancor di più.

Sì. Nella medesima situazione altre coppie sarebbero di certo “scoppiate”.

Comunicare le disabilità è diventato per te un focus nel tempo, oppure te ne occupavi già dai tempi dell’università?

Ho sempre voluto scrivere, perché considero la scrittura un luogo senza barriere. Se una persona comunica lo fa per arrivare a tanti. Poi nel tempo le cose son cambiate. La mia attività non è una missione, non voglio cambiare il mondo, bensì seminare qualcosa di utile. Mi sono accorta che in Italia non c’è nessuno che racconti al prossimo le cose utili.

Molto banalmente: i miei contenuti sono di tipo informativo. Ad esempio: posso avere lo sconto sulla bolletta della luce perché ho un apparecchio elettrico come la carrozzina? Come ottengo lo sconto sulla benzina in quanto beneficiaria della L104? E ancora: ho preso la patente perché ho visto una ragazza nella mia stessa condizione di disabilità ottenerla. Fino a quel momento, ogni volta che mi rivolgevo alle istituzioni per farne richiesta ricevevo una risposta negativa.

La disabilità che posto occupa nell’affermazione della tua identità?

La disabilità parla prima di me, mi presenta anche se non voglio. È l’abito che fa il monaco.

Al giorno d’oggi è sempre più diffusa l’abitudine a esprimere apertamente e in modo marcato ciò che si è, o chi si è, per dargli valore. O più valore. Ma quando questa esigenza cade nella spettacolarizzazione, allora smetto di condividerla. Ecco un esempio: la cascata di coming out a cui stiamo assistendo. Non giudico ovviamente la scelta del singolo individuo, ma mi domando quanta pressione sociale ci sia dietro. Perché si sente l’esigenza di dichiarare il proprio orientamento sessuale? È come dover dire se si è di destra o di sinistra. Fare coming out (su una qualsiasi tematica d’identità, non solo sull’orientamento affettivo), acquisisce secondo me valore nel momento in cui si ha anche la forza di diventare role modeling, e quindi il contesto in cui si inserisce quella rivelazione è significativo per qualche motivo. È importante accompagnare l’ascoltatore/l’ascoltatrice medi a collocare sempre una notizia all’interno del contesto di riferimento. Alcuni coming out hanno davvero la forza del role modeling e ha senso che vadano diffusi dai media, su altri trovo totalmente inutile costruire una notizia.

Quindi, senza voler misurare o giudicare l’esperienza personale di nessun*, penso talvolta sia inutile o controproducente fare coming out. Perché una persona decide di fare coming out, domando? Perché la fa stare bene, rispondono. E perché la fa stare bene? La pressione sociale la “obbliga” a fare una dichiarazione per stare bene?

E come distingui le une dalle altre?

Secondo me i social sono un buon modo per capire se una persona è sincera nel suo attivismo o semplicemente cavalca un’onda o una moda. Lo si coglie subito.

L’integrità di alcune persone non è in vendita. Per altre, invece, esporsi è solo mettere in mostra il proprio giardino, entrare in una cricca, attivare collaborazioni strategiche.

Quello che a me spaventa un po’ invece è che, una volta fatta una dichiarazione d’identità, non è più possibile tornare indietro. Ad esempio, io voglio sentirmi libera di definirmi una persona di sinistra e allo stesso tempo di dichiararmi insoddisfatta e critica nei confronti della sinistra, ogni volta che lo penso senza per questo essere identificata come persona di destra.

Ti capisco e condivido questo pensiero.

Torniamo all’intersezionalità: una persona con disabilità è più discriminata se è donna?

Assolutamente sì, per tanti motivi e in molti ambiti. Dal mondo del lavoro, alla prevenzione sanitaria e poi pensa a questo: le donne nascono con la possibilità – se lo vogliono – di generare figl*. Ma non è così per tutte. Per le donne con disabilità parliamo ancora di sterilizzazione coatta.

Ma avviene realmente? Al giorno d’oggi?

Ti posso assicurare di sì. E con il permesso della famiglia, come strumento di tutela: protegge dagli abusi sessuali e facilita nella contraccezione, oppure può essere utilizzata per scopi medici.

Come in Irlanda e Slovenia, in Italia viene utilizzata come misura urgente e “terapeutica”, pertanto, non viene criminalizzata come reato specifico, ma può essere perseguita come circostanza aggravante ai sensi dell’articolo 583, comma2, del codice penale.

Parliamo di sanità pubblica? Italiana?

Sì. Tieni presente un’aggravante: anche nel mondo della disabilità ci sono gerarchie di discriminazione e le persone con disabilità psichiche, al giorno d’oggi, sono quelle più emarginate e quindi abusate.

Spesso c’è poca possibilità di un dialogo paritario con loro, quindi se non sono adeguatamente tutelate possono addirittura subire discriminazioni e abusi senza manco esserne consapevoli.

Tornando al tema della maternità: la gravidanza di una persona con disabilità non porta dei ragionamenti in più, o più complessi?

Certamente. Porta a pensare alla possibilità conclamata che il bambino possa avere delle malattie, in primo luogo. Ma non è un buon motivo per non avere a possibilità di scegliere.

La mia esperienza è questa: io non voglio procreare in primo luogo perché non ne sento il bisogno.

Inoltre, non voglio avere un figlio/a, se non ne posso godere fino in fondo, ma non ci sono regole valide per tutti, ad ognuno deve essere garantito il diritto.

Cosa intendi?

Ho 40 anni e ho bisogno di essere seguita e supportata in molte attività quotidiane (usare il bagno, vestirmi, viaggiare...), come potrei prendermi cura di un bebè? Non potrei nemmeno tenerlo/a in braccio. Non voglio un bambino/a, se non ho la possibilità di avere un legame “standardizzato” con lui o lei.

E non c’è modo che questa possibilità venga supportata dal mondo medico-sanitario?

No. E aggiungo: perché se non posso avere figli biologici, non ho la possibilità di adottare nel momento in cui ho un compagno (o una compagna) e garantisco un solido e sano ambiente di crescita al nascituro?

Anche in ambito sessuale una donna con disabilità è più discriminata di un uomo con disabilità?

Sì. L’uomo che vuole avere un rapporto sessuale, ma non può, è soggetto cosciente dei propri desideri (certo... poi chiede l’assistente sessuale e, in Italia, le prestazioni di assistenti sessuali sono considerate merce del demonio, ma questo è un altro capitolo).

Invece, nel caso di una donna con disabilità, lei diventa l’oggetto sessuale di qualcun altro.

Girava un video su Youtube, che poi è stato denunciato e rimosso dalla rete grazie a una petizione, dove Sdrumox, uno streamer con molto seguito (che ha già all’attivo un ban permanente da Twitch) partecipa al podcast “Fapensare” e parla a ruota libera di diversi argomenti. La ruota è talmente libera che i tre ragazzi arrivano a dire, fra le risate, che è molto appagante fare sesso con donne delle storpie, cieche, in carrozzina, con sindrome di Down, ecc. perché dipendono da completamente da te e puoi “rigirarle come vuoi”.

Che opinione hai, da giornalista, sull’identità italiana oggi? Esiste ancora?

Ognuno fa per sé. Tanti “sé” fanno un semigruppo. Il popolo italiano c’è, ad esempio, per il calcio, ma non per il governo, nel bene o nel male. Anche prima in piazza non c’era mai nessuno, anche quando c’era la sinistra al governo e molte altre persone che la pensavano diversamente - mi rendo conto di dire una cosa generalista – ma anche allora in piazza non c’era nessuno, se non i soliti quattro co****ni che fanno quello di mestiere. Ma il popolo non è il sindacato. Il popolo è il fruttivendolo, sono io, sei tu. Io non sono mai andata in piazza perché questo Paese non mi stimola a dedicare del tempo a manifestare la mia opinione in quel modo. Questo non vuol dire che non dedichi tempo a manifestare il mio pensiero in altre modalità.

La nostra identità è l’insieme di tutte le nostre scelte e, forse, anche di quelle che non abbiamo fatto.

Non ho scelto di nascere a Napoli Est negli anni ‘90, “ai bordi di periferia dove i tram non vanno avanti più”, dove la criminalità organizzata faceva da padrona. I miei genitori, un operaio e una casalinga, non immaginavano neanche lontanamente di aver dato vita a un figlio maschio, nonostante una F sull’atto di nascita e una A alla fine del mio nome attestassero il contrario.

Oggi mi chiamo Alessio, ma non è sempre stato così.

Sono cresciuto in un quartiere popolare, con una sorella più grande dalla femminilità evidente mentre io cercavo di indossare pantaloncini e scarpe da ginnastica maschili schivando qualsiasi accessorio che afferisse alla dimensione del femminile. Mi sono diplomato al liceo linguistico e poi ho iniziato a studiare sociologia, alla Federico II di Napoli.

Per la società in cui sono vissuto non sono sempre stato Alessio. La verità è che nemmeno io ho avuto subito coscienza di essere Alessio. Ma non sarebbe potuta andare diversamente. Sono stato sin dalla nascita socializzato come una bambina, ho vissuto l’infanzia nelle aspettative femminili della società, per questo sono stato considerato troppo ribelle, troppo vivace, troppo perspicace. Tutti “troppo” che, se fossi stato dichiarato come Alessio sin da subito, forse sarebbero apparsi fin da subito per ciò che sono: inutili e privi di senso.

Ho vissuto l’adolescenza come ragazza non binaria lesbica senza comprendere le espressioni con cui venivo bollato: maschiaccio, mascolino e androgino. Confondevo la mia espressione con la mia identità e soprattutto col mio orientamento sessuale. Per la maggior parte della mia vita mi sono sentito sbagliato senza capirne il perché.

Poi le cose sono cambiate. A 18 anni ho iniziato a studiare scienze sociali e mi sono avvicinato sempre più all’idea che avevo di me. Ho esplorato ogni possibilità di esistenza, superando gli stereotipi e l’ordine di genere che categorizzano e regolano la società. Ho scoperto le lotte alla parità di genere, il femminismo, le discussioni radicali e post-strutturaliste ad esso collegate e ho scelto di abbracciare queste cause al di là del mio corpo ma non al di là della mia essenza.

Soltanto a ventidue anni ho iniziato a maturare l’idea che il fuoco che sentivo ardere era alimentato dall’ irresolutezza dell’essere: alla domanda “chi sei” diventava sempre più difficile rispondere.

È nel tumulto della “generazione” di me che parto per Spoleto, per il 208° corso Agenti della Polizia di Stato ed è in un ordine così definito che le (in)certezze esplodono, è nella palazzina L del dormitorio femminile che l’impeto del divenire si fa concreto. Durante questo corso intraprendo il mio percorso di transizione FtM, identificandomi come un ragazzo eterosessuale e non per questo meno femminista, abbandonando l’idea di tradimento nei confronti della categoria femminile liberata da ogni stereotipo.

Oggi sono Alessio - anche per la legge - faccio l’agente di Polizia e il dottorato in Scienze Sociali e Statistiche. Credo profondamente nella ricerca sociale a livello accademico e non solo. Un’attività, questa, che unisce le mie due dimensioni più importanti: lo studio empirico e l’attivismo. Dal 2021 sono il presidente dell’associazione Polis Aperta, l’unica associazione nazionale per gli appartenenti LGBT+ alle forze di polizia. Lavoriamo per intensificare la rete di sostegno e solidarietà a tutt* i/le collegh*, vogliamo diffondere un messaggio di formazione, consapevolezza e orgoglio. Il nostro obiettivo, attraverso l’uso di una comunicazione positiva, è superare i limiti dei pregiudizi. È come se ci fosse un’opposizione invalicabile tra i ruoli che in me si rappresentano: da un lato, il significato politico connotato ideologicamente da un appartenente alle Forze dell’Ordine e dall’altro, la coscienza sociale che muove il percorso di determinazione del sé di una persona LGBT+. Mi sono sentito e mi sento tutt’oggi spesso fuori posto, senza un ruolo in cui identificarmi realmente: una contraddizione; ma non è dalle esperienze contraddittorie che nascono le rivoluzioni!

Luciano De Crescenzo nel suo film più famoso, apostrofando l’ approccio epicureo ci provocava così: “ma perché sacrificarsi per i posteri, che cosa hanno fatto questi posteri per noi? ”Me lo sono chiesto spesso, in questi anni. “Questi posteri” però oggi hanno un viso, un nome e una narrazione di possibilità e io li guardo e li vivo nella consapevolezza tutta personale di farlo per loro sì ma per non lasciare più da solo l’Alessio abbandonato alla paura.

E allora sono contento di aver scelto un approccio stoico nell’ esperienza della mia esistenza, seppur inconsapevolmente; perché se solo ciò che non si nomina non esiste, oggi soltanto così esisto: nominandomi.

When we met Kristen Anderson, CEO of European Women on Boards – who is from the US but based in Parma – our first question was what brought her to Italy.

The short answer is Barilla – she always worked in the food industry; she’s a chemical engineer by training. She first worked in R&D for Kraft for many years, including in Melbourne and later Munich. When Coca Cola was investing in building a new, state-of the art Technology Center, they approached Kristen and her husband to manage the $30+ million project so they decided to move to Shanghai for this once in a lifetime opportunity, where a recruiter found her – and that’s when Kristen joined Barilla in 2010 to run part of their research group in Parma.

In 2013, the then new CEO Claudio Colzani, together with chairman Guido Barilla, decided the company needed to focus more on D&I. They formed a D&I Board, composed of internal employees and external experts, and created a Chief Diversity Officer role reporting directly to the CEO. Kristen was invited to be on the board and eventually became Chief Diversity Officer in 2017. She stayed in the role until 2021, when she passed the role to the next CDO.

So, what led her to European Women on Boards? In May 2020, during lockdown, Kristen received a newsletter from the Italian gender equality organisation ValoreD, which included a mention of EWOB’s courses. Intrigued, she applied and was accepted into their C-Level Programme for the autumn of 2020. “I liked them so much that, when they had a call for more volunteers at the beginning of 2021, I volunteered for one of the Committee Chair positions and was elected to their board. Then in September of 2022 I was elected as their first CEO.”

EWOB is a 10-year-old pan-European non-profit organisation. It was formed after the EU Women on Boards Directive was rejected by some member states, claiming that this work could be done voluntarily. Other member states, such as France, the UK and Italy, approved their own legislations. However, associations like Valore D in Italy decided that there was also a need for a European umbrella association that could eventually help get the EU Directive passed.

The objective, explains Kristen, “is to have more gender equality in decision-making in corporate leadership. We focus particularly on the board and the C-suite”.She points out. “We’re called EWOB but we also support women whose next step is the C-suite as well as women from non-European countries. It’s not about putting unqualified women in the boardroom” she stresses, “but about levelling the playing field.”

Yelly Weidenaar - Board Director, Robert Baker - Board Strategist in Diversity and Inclusion, Hedwige Nuyens - Chair, Jitka Schmiedova - Vice-Chair, Maria Sipilä - Vice-Chair, Monika Jezierska - Board Director, Michelle Saaf - Former Secretary General, Nadine Nembach - Board Director

“The EU Directive was finally adopted last November. By July 2026, all publicly listed companies in the EU will need to have 40% minimum non-executive directors of the under-represented sex on their boards (or 33 % for all types of directors). Italy, Kristen points out, had already passed its own legislation, so it’s at 36%, well on its way towards meeting the target.”

EWOB tracked the data on countries with and without their own regulations, and it shows that countries without legislation made little to no progress in the last 10 years.

“Now that the Directive has been approved, EWOB will focus on supporting companies to implement the EU Directive by helping them find talented women.”

To do that, EWOB is building a thousand-women talent pool of senior leaders. They also offer women training to enhance their skills and highlight their key competencies, such as their flagship C-Level Program.

In September 2022 they launched a Board Readiness Program, and they also offer a Cross-Border Mentoring Program that matches senior-level women with more senior-level men or women, to help women achieve their career aspirations. Women and men can also join as individual members, to participate in virtual and in-person events, access exclusive board opportunities and network with other senior leaders. EWOB members also benefit from exclusive discounts when joining the organisation’s partner associations.

EWOB is also always looking for male members and allies. Kristen adds “Our core mission is to support gender diversity and equality, but we also want to ensure that diversity is considered and represented in all its forms. We just relaunched our advisory board and you’ll see the members on the website-50% men/50% women-plus we were conscious about including all diversities.”

The organisation doesn’t have many members from Eastern European countries and members from different race/ethnicities, and that is something they hope will change: “We want much more cultural and ethnic diversity in our membership, as well as in our programmes.”

EWOB, Kristen concludes, is different from other organisations she’s been involved in, as it’s a particularly welcoming and supportive group. The men and women who join EWOB are very like-minded; you don’t join EWOB if you don’t believe in gender equality in decision-making – and in levelling the playing field.

How do children craft their identity and to what extent do stereotypes have an effect on them? I did not ask this question but I started thinking about it when I read: How Gender Stereotypes in Children’s Books Shape Career Choices (www.thersa.org/blog/2019/03/gender-books) now I was curious to see what I could find at home... and what I was reading to my 5 year old son. If you read the aforementioned article, you’ll notice that the focus is on the problems of ethnic stereotyping and gender in school books.

So, having a 5 year old, my first reaction was, “how many stereotypes are there in children’s books? Specifically, in the basal reader books, that are the first books children read”. Pretty sure that my bookcase would not be too stereotypical as I am the kind of father who reads both the Gingerbread man and the Gingerbread woman!

With this “comfortable” thought, I sought to look at some of those basic 5 year old reading books again and on the third and fourth book I got this:

in a book about a child and a father, they spend a day at the park, feeding ducks and reading stories, while the same story with mum is about going to the supermarket, cleaning the garden and cooking dinner.

I switched to an old elementary school book, from India and checked and found that the gender stereotypes were all there. I started searching, I mean I know that gender stereotypes are stronger in Asia, being familiar to that culture but just out of curiosity I started looking at papers and theses, which were trying to quantify how much stereotyping exists in textbooks.

Here’s an excerpt from a paper talking about Chinese textbooks, sounds every bit like 1950’s America.

“The gender stereotypes in the textbooks are also reflected in the fact that boys are often portrayed with short hair, sports clothes, and actions related to intelligence, while girls are portrayed with pigtails, skirts, and actions related to housewife, good behaviour, and timidity [14]. Moreover, they all embody the traditional women ‘s kindness, gentle - ness, patience, easygoing, diligence and so on; Men are great, high fashion, modest, open-minded, resolute, stub - born, ambitious, wise and brave, and so on” (125969964. pdf, The gender inequality in Chinese Textbooks, Yuyue Jiang)

Once again the bell rang, so then the natural move was what about children’s school books in Italy? I am not going to write about this, because I’d like you to do this search for yourself and see what you find when you write about “stereotipi di genere e etnia nei libri di scuola in italia.” I’ll only say that like in the U.K., some editors have woken upto this and are starting to address the issue.

Then and my final move was to ethnicity as a stereotype and this touches me personally because in a country like Italy “all is well till you are a kid, say 8 years old and dark skinned, they say “che carino” but as soon as you turn 18, you become “lo straniero” ( quote stolen from Nadeesha Uyangoda’s book, ”l’unica persona nera nella stanza”)

So I am now thinking, how do children who are mixed or children in Italy’s three biggest foreign communities build their identities? Think about children with one or two parents originating from Romania, Albania or Morocco. I do not know how many of Divercity’s readers have actively started looking into this, if you have, then you might have discovered a whole new world made up of books like the aforementioned, “Gingerbread woman”, or “My shadow is Pink” or “Pink is for Boys” and even the more controversial ( in the U.S. ) “Pink, Blue and You”; books that address the issue directly, compared to older texts such as “Ferdinand the bull” which are on the same issue, but not as direct, as these new generation books.

To exist in a world where stereotypes do impact identity we need to source wide and from diverse points to educate Children towards differences and we need not wait until adolescence. Naturally, to a great extent will depend on the family environment but reading and books are significant in moulding a young person’s mind. On a final note, according to a U.K. publisher, only 5% of children’s books in the U.K. “featured black and minority ethnic characters”, while in daily life ethnic minorities in the U.K. represent about 30% of the country’s social fabric. (Children’s books eight times as likely to feature animal main characters as BAME people, The Guardian; https://www.theguardian.com/books/2020/nov/11/childrens-books-eight-times-as-likely-to-feature-animal-main-characters-than-bame-people)

Now that I think of it, what about in Italy, where 8% of the population is foreign, how many books actually show diversity or counter the standard stereotyping present in every culture? I am aware of some written by pedagogic or intercultural experts but am curious to find more. Hope to have piqued your curiosity … to be active in countering gender and ethnic stereotypes during early childhood.

Sometimes, I give classes to adult students at a professional institute in a small town of Lombardia. I am, quite literally, the outsider, bringing conversations on identity, diversity and the value of dialogue into their classrooms. In this remote neighbourhood, we try to broaden our horizons while enclosed within walls and begin the process by sharing our own vulnerabilities and life stories that have impacted us.

Of the hundred students I engage with in any given week, two of them wear the headscarf. One is a migrant from Nigeria and the other, like me, is from Pakistan.

The fact that they wear the headscarf is the only thing they have in common with each other. In almost every other way, they have had very different experiences of wearing the veil. While my Nigerian student shares stories of isolation and hostility from others, my Pakistani student is deeply rooted as an intimate part of her group. Her journey from a shy and unsure new migrant at the beginning of high school to the confident young lady that she has now become has a lot to do with her friends’ support and constant encouragement.

Usually, institutions that open their doors to the wider community, function like a microcosm of the dynamics that play out outside on the streets and bars of local neighbourhoods. And time and time again, they remind us that the stereotypes that we encounter in newspaper articles or at dinner table discussions among people who never step out of their inner circle, exist for a reason. They are devoid of personal experience of diversity. Those who live in the real world and interact with people from other cultures and religions usually have a different story to tell. Even when that story is one about the visibly different looking woman who wears her identity out proud, as a veil.

To many Italians, the head covering represents an oppressive dictate of religion passed down to a woman through a patriarchal bearer of her religion. This may be true in many cases. There may be coercion by family, state, society, or just a rigid reading of religion. But the hijab, veil, purdah cannot be explained away so simply. There are diverse forms of the veil and the reasons for wearing them vary. It all depends on the interpretation of Islam from country to country, and how each person interprets her context, culture, identity and comfort level. This is why when we speak about the veil, we must be clear - are we speaking about the veil by choice or veil by obligation? We cannot speak of both, together.

Most Muslim women who wear the hijab, especially outside their home country, do so because they take pride in their Muslim identity and heritage. It is a chosen path and the path is sometimes proudly displayed to the public, as if to declare one’s values openly.

There are other reasons too. According to Teen Vogue that asked young American women why they wear the hijab, one said that she donned the hijab to practise humility in the face of her growing vanity. Another girl said that her hijab was to reclaim her identity from the terrorist narrative and make a statement against islamophobia. My Pakistani student began wearing the hijab after arriving to Italy, more as a statement of sisterhood with a new friend she made here. Now, she keeps it on in school, but not when she’s out about town.

One of my cousins in the US began wearing the headscarf after September 11 to deeply accentuate her Muslim identity and its cultural marginalisation. And just like that, two years ago, she decided to take it off and swish her flowing hair from side to side for Instagram reels.

Usually, when we see a woman with a headscarf, our eyes see this: donna-velo-religiosa-strana-straniera. We choose to simplify what is complicated and nuanced. We choose lazy stereotyping over discomforting ourselves to understand how people live in different contexts.

The veil is such a layered topic, and full of so much diversity and fluidity that when we speak about it as a generic term, in a way, it is as if speaking about nothing. The veil can be a choice, freedom, individuality, identity or it can be an oppression, force or coercion.

When Iranian women burn their headscarves, they are protesting against the state control of their bodies, they are not protesting against their religion. Women who wear headscarves by choice stand in protest with women against the veil by coercion.

Women always have to carry the weight of the ideological debate of their countries. Whether it is the Shah of Iran banning the veil from public life in Iran or the Islamic state making it compulsory. Or when it is white, male politicians voting to ban abortion in one of the world’s super powers.

The question then is to ourselves: Can we see the difference between the veil as a choice, and the veil as an obligation? And then, can we see the woman beyond the veil without getting stuck with what she wears on her head?

“Essere o apparire?” non è una domanda amletica, ma un interrogativo che non trova risposta scontata nella nostra società. A mettere ulteriore pepe è la ricerca di una definizione unitaria del concetto di “identità”, ma vi svelo un segreto: non esiste, perché non esiste una identità standardizzata, ma unitaria caratteristica di ogni persona. Ancora di più se facciamo riferimento alle categorie marginalizzate, come le persone con disabilità: dalla quotidianità, ai rapporti umani, all’ambito lavorativo, all’aspetto più sanitario, ognuno di noi la vive in modo differente.

Ne ho parlato con Chiara Bersani, performer, autrice e regista/coreografa italiana attiva nell’ambito delle arti performative, del teatro e della danza contemporanea e premio UBU come miglior nuova attrice/performer under 35 del 2018.

Chi è Chiara Bersani come persona e come professionista?

Una domanda complicata, forse sono una persona con mille personalità che ha sempre vissuto con regole tutte sue, non per stranezza, ma si è costruita un sistema di regole per vivere o sopravvivere per crescere in un luogo di provincia, dove le cose importanti capitavano sempre altrove o arrivavano sempre dopo, in ritardo, in differita, quindi era un po’ un salvataggio con una realtà coerente, ma che spesso non corrispondeva a quella della maggioranza delle altre persone. Un mondo che mi faceva prendere anche bastonate incredibili: o si crollava e si tornava indietro, altre volte funzionava. La mia è una realtà con dei punti di congiunzione e a 40 anni è complesso “cadere ancora dal pero”, ma una cosa è sempre stata nitida: la mia disabilità non è mai stato qualcosa di nascosto, sminuito o semplificato. Questo mi porta, come professionista, a contornarmi di persona preziose che mi ricordano quali sono le regole del mondo vero. Tutte le mie personalità stanno bene al mondo con le persone in una dinamica fortemente comunitaria. Questo è l’unico elemento che quando manca, mi fa crollare, come è capitato durante la pandemia, in cui mi sono sentita smarrita.

Quale nostra diversità sentiamo come importante e vorremmo ci identifica di più e quale, in realtà, finisce per rappresentarci?

Domanda bellissima, ma molto complessa, perché mi sento diversa da una maggioranza di persone per i ritmi di vita. Ho sempre provato imbarazzo a riconoscermi “lenta”. Rispetto ai ritmi classici come a scuola, nei bisogni o vedere le cose, il mio corpo ha un tempo tutto suo che scandisce la mia vita, che mi avvolge e che voglio rivendicare e difendere, ma non sempre ci riesco. Non ho mai dovuto fare pace col mio corpo per qualcosa, ma ho sempre avuto una stretta relazione, nessuna crisi esistenziale, ma nelle classiche tappe di vita come capita a chiunque, come ad esempio nell’adolescenza. Pur non avendo la classica forma di una donna di 38 anni, non ho questioni aperte. Per la mia percezione è irrilevante, anche se spesso per gli altri non è così. È in questi casi che gli sguardi delle persone che si sentono disturbate da me, mi fanno sentire violentata e catalogata e non nascondo che una parte di me si addolora.

Chiederti chi sei e chiederti qual è la tua identità, per me, sono 2 sfumature differenti, quindi qual è la tua identità?

Parlare di identità non descrive chi sei, ma svela una conquista nel percorso personale: capire che l’essere disabile è il tratto basilare della mia identità e attorno a questo si è costruito tutto. C’è una grande fierezza nel rivendicare l’appartenenza a questo gruppo fluido ed eterogeneo: sono una donna disabile e non una donna con disabilità. È nettamente diverso, perché non voglio nessun altro dettaglio che mi separi da ciò che sono.

Che valore dai alla tua carrozzina? l’abbandoni spesso in scena, mentre so quanto sia fondamentale, è solo un mezzo o qualcosa di più?

Un valore enorme, un tesoro perché non è solo un oggetto utile per me e la mia vita, ma c’è una netta differenza tra lei e il mio corpo, ma per me non è l’estensione della mia persona, anche se c’è un grande legame di appartenenza, tant’è che quando la devo cambiare subentra anche la questione emotiva. Non la utilizzo solo per muovermi, ma grazie a lei apprendo il mondo: dal suolo che calpesto e interpretare attraverso le vibrazioni o la temperatura ogni volta che spingo le ruote, quindi è un rapporto molto fisico anche se tanto fragile che sfocia anche nel prendermi cura di questo mezzo in un’azione intima. Possono sembrare strane queste parole perché poi le mie interpretazioni non la vedono mai, o poche volte, in scena. Non è una scelta premeditata, ma compare ed è un mezzo per sperimentare, perché non è sempre utile per il mio linguaggio e spesso il pavimento è la mia dimensione, ma torno in carrozzina per gli applausi.

Disabilità e professione: quanto c’è ancora di stereotipo e tu come riesci a non rimanere incastrata?

Siamo ancora nelle sabbie mobili di una storia infinita che non vede ancora un buon finale. Nel mondo delle arti c’è una enorme difficoltà a farsi conoscere come professionista e non come persona che è riuscita a fare della sua bizzarria un lavoro. Il problema sta tutto nella riconoscibilità.

Parlaci di Al Di Qua Artists

Al.Di.Qua Artists, la prima associazione di categoria di e per le persone con disabilità nello spettacolo. La 1ª realtà non composta da un’unica compagnia o da un’unica rappresentazione di disabilità, ma un punto di riferimento nato da un’esigenza durante i lockdown con riunioni che hanno sviscerato le identità partendo dal vocabolario fino ad arrivare ad una lettera manifesto che ci ha visti debuttare nel 2020.

Abbiamo ottenuto i fondi di Europe Beyond Access, il più grande progetto al mondo su arte e disabilità cofinanziato da Creative Europe. Con questi soldi avremmo potuto organizzare uno spettacolo, ma la situazione pandemica non lo permetteva. Abbiamo preferito costruire uno spazio virtuale per farci delle domande, insieme, aiutati da una sociologa che ha guidato le nostre prime riflessioni. Siamo partiti da lì e ne abbiamo fatta di strada.

“I always wondered why women didn’t have a business forum of their own to connect and discuss how to advance their careers and speed up their economic progress.” That’s why the Summit was founded 33 years ago. She focuses on solutions, rather than problems: “How many times can you say women aren’t paid as much as men? I want to know what companies and countries are doing to make pay equity happen, so what we do at the Summit is to have exchanges on what works.”

She also insists that the Summit be global – “I want women to be players and leaders in the global market. To sit across from women from countries they might never go to.” Speakers come from all over the world: “Some of the best solutions come from Africa, from South Asia, because when resources are limited, people are forced to be creative - you tend to do more with less. I think of every Summit panel as Noah’s Ark, with perspectives from different countries and companies. We rotate annually to different continents to make it accessible to women everywhere, instead of always coming to one place, like the World Economic Forum. It claims to be a platform for world leaders, but how many women Heads of State and women CEOs are there? Not enough. I feature women in charge at the Summit because I want people to see what’s possible.”

President Obama greets Irene Natividad at a White House event in 2016

What progress have women made over the last 30 years?

There are now far more women in the workplace. Not everywhere, but there’s been tremendous progress. The World Bank says that nearly 40% of global GDP is due to women’s economic output. Women are the majority of college graduates, whether in Bangladesh or Mexico. The problem is, they don’t have the jobs to use the training they already have. The other incredible advance is that women entrepreneurs are now a third of all small business owners globally. The issue is they can’t access international markets, or secure enough funding to grow. So, at the Summit I try to make those connections that facilitate cross-border business, as the Thai Chamber of Commerce did with the Vietnamese Chamber at the last Summit to connect their women entrepreneurs.

And some women do it on their own – at the 2002 Barcelona Summit, I found a woman selling pashmina shawls out of a suitcase in the bathroom, because “everyone has to go to the bathroom!” Over the years, I introduced her to other women’s business associations, and she went to their conferences. She’s since found partners in Japan and Iceland to sell her products and now has a stand-alone store and sells online. That motivated me to set up the Women’s Expo, to showcase products from women entrepreneurs at every Summit–why should they sell their stuff in the bathroom?

Why is the next GSW being held in Dubai?

We haven’t been to the Middle Eastern region for a long time. And part of what I do is to challenge stereotypes, and not just gender stereotypes. The UAE is very progressive, which many don’t know: 50% of the parliament and 30% of the cabinet is female. They have a quota for women on corporate boards, like Italy.

Natividad opening NASDAQ Stock Exchange in 2006

What is your impression of the current Italian situation?

We need to be vigilant. Right-wing forces in different parts of the world want to turn back the clock.’ She points to the loss of reproductive rights in the US and adds that the current Italian government would also like more women in traditional roles. ‘A part of this stems from zero population growth; no economy can grow if you don’t have enough people. Right-wing governments encourage women to stay at home and have children because they want more workers in the future and don’t want the liberal forces that women at work bring with them.

What advice do you have for Italians?

Companies must stick with the sustainability argument for diversity. You cannot grow and be competitive without a diverse workforce, and in Europe that means more women. If you don’t use the talents of half of the country, the economy suffers. Culture is the biggest impediment in the workplace. The idea that care work in the family is the responsibility of only one gender is still stuck in Italy. And there are still pockets in the United States that have similar opinions.

Do you feel optimistic about the future?

I always feel optimistic! You cannot be an advocate if you’re not an optimist. Change is incremental. It’s Sisyphean. Every rock that falls down, you push it back up again and try and get it a little bit higher.’ Like paid parental leave in the US: ‘It’s one of the pieces of legislation that I testified for in Congress, but we were only able to get passed unpaid leave. Now we need paid leave, which you have in Italy, but we’re unlikely to get it, given the composition of Congress now. But do you give up? No, you work with the private sector instead. You do what you can in every arena where there’s a door. You continue to push for change.

La bella Angelica, personaggio che già appare nell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, viene ripresa da Ludovico Ariosto che la pone prima come premio e poi come oggetto della ricerca di numerosi paladini di Carlo Magno e guerrieri mori all’interno dell’Orlando Furioso. Angelica arriva in Europa dall’Oriente, è nota infatti per essere la principessa del Catai e gli studiosi ancora dibattono per definire se Ariosto si riferisca a “Cataio”, una città dell’India, oppure all’antico nome della Cina settentrionale, che già troviamo secoli prima ne Il Milione di Marco Polo.

È a questo punto della spiegazione che una mia studentessa cinese alza la mano e interviene con una domanda molto pertinente: “Prof., ma se Angelica è cinese o al massimo indiana… perché l’immagine del libro la raffigura bionda e con gli occhi azzurri?”.

Artwork: @Meridyan_art

Angelica non viene mai descritta nei suoi tratti somatici, ma solo il fatto di essere considerata attraente dalla maggior parte dei personaggi dell’opera di cui fa parte, le garantisce una corsia preferenziale verso il canone estetico occidentale, in un’ottica tutta classicista della concezione della bellezza. Già nel XVI secolo, Johann Joachim Winckelmann, il primo grande storico dell’arte classica, affermava che l’ideale di bellezza da seguire nelle opere d’arte fosse quello dell’antica Grecia: proporzioni del corpo perfette sormontate da un viso occidentale, il tutto forgiato nel marmo bianco. La conseguenza di queste teorie si è tradotta, con il passare dei secoli, in rappresentazioni canoniche della bellezza femminile, tanto che Angelica non rappresenta l’eccezione, bensì la regola nell’universo delle donne bianche, bionde e con gli occhi chiari dell’arte.

Si potrebbe obiettare che le raffigurazioni di cui stiamo parlando appartengono a secoli fa (anche se nulla toglie che i libri di testo potrebbero impiegare degli illustratori per essere più inclusivi) oppure che, in assenza di una descrizione delle caratteristiche fisiche del personaggio e senza i particolari della sua storia, non possiamo sapere esattamente i tratti somatici di Angelica. Vi è un altro esempio, però, dove invece la descrizione è approfondita, ma la rappresentazione non corrisponde a ciò che si legge: si tratta di Clorinda, comandante delle truppe musulmane del re Aladino della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.

Artwork: @Meridyan_art

Come si evince dai canti dell’opera in cui è protagonista, Clorinda è una principessa etiope nata con la pelle bianca: la madre cristiana “ingravida fra tanto, ed espon fuori […] candida figlia. Si turba; e de gli insoliti colori, […] ha meraviglia” (G.L. XII) e affida la bambina a un servo che la crescerà nella fede islamica e la terrà con sé come una figlia. Clorinda, fin da piccola, è attratta dalle armi e dalla guerra, infatti, una volta cresciuta, indosserà la sua armatura e l’elmo decorato con una tigre. Clorinda combatte con una forza tale che nessuno dell’esercito cristiano sospetta che sia una donna, finché in uno scontro contro Tancredi “Ferirsi a le visiere, e i tronchi in alto volato e parte nuda ella ne resta; ché rotti i lacci a l’elmo suo […] ei le balzò di testa; e le chiome dorate al vento sparse, giovane donna in mezzo ‘l campo apparse” (G.L. III). Clorinda ha la pelle candida e i capelli biondi, ma è una donna africana, è una donna albina.

Quando la mia studentessa ha portato alla luce la questione delle origini di Angelica ho subito pensato a che ruolo importante possano avere questi due personaggi, e chissà quanti altri, nella rappresentazione delle diverse identità che si possono trovare in una classe di Scuola secondaria di primo o di secondo grado.

Mi piacerebbe che i libri di testo si interrogassero su queste tematiche che purtroppo vengono considerate ancora marginali e proponessero una nuova iconografia di quei personaggi della letteratura che nei secoli hanno subito un whitewashing. Vorrei che la mia studentessa si sentisse rappresentata da Angelica e da una nuova concezione della bellezza capace di accettare una principessa dagli occhi allungati; vorrei che Clorinda fosse raffigurata come una ragazza albina della piccola tribù Karo, presente ancora oggi nel sud dell’Etiopia, in modo da spingere i ragazzi a parlare dell’inclusione e della ricchezza culturale di un continente, l’Africa, troppo spesso posto ai margini. Vorrei dare la possibilità a queste figure femminili della letteratura di insegnarci che il concetto di bellezza non dovrebbe mai fondarsi su un canone, ma accogliere ogni tipo di diversità.

La sala del Centro per Tutte le Età è buia, tranne che per la luce del proiettore e qualche fessura delle finestre mal tappata. Da fuori avrei pensato di essermi sbagliata non fosse stato per la musica: la proiezione era già iniziata. Le donne sono sedute all’interno, si scambiano qualche parola sottovoce, commentano, ridono e applaudono. La registrazione che stanno guardando è quella di un’opera che si può definire la “loro”, una reinterpretazione de La Favorita di Gaetano Donizetti, andata in scena a Bergamo il 15 novembre 2022 con la regia di Valentina Carrasco. L’opera, messa in scena senza censure e in francese (versione originale), colpisce molto per l’invenzione registica: appunto, le Favorite, protagoniste dell’intermezzo musicato, interpretate da donne più o meno anziane, attrici dilettanti. Oggi intervisto qualcuna di loro, due mesi dopo averle viste sul palco, quando hanno riscosso il loro primo, gigantesco, meritatissimo applauso.

Ho deciso di riportare esattamente le loro frasi (in corsivo virgolettato): anche se potrebbero sembrare eccessivamente colloquiali, anche se ci sono delle ripetizioni, delle sbavature, dei giri di parole. I motivi principali sono tre: primo, perché l’articolo è l’intervista. Le parole che contano in questo caso sono quelle di una chiacchierata. Secondo, la varietà del parlato riflette l’eterogeneità del gruppo: queste donne hanno vissuti e quindi linguaggi diversi, che sarebbe un peccato appiattire. Terzo, ciò che le Favorite hanno vissuto è stata soprattutto una grande esperienza umana. Nessuna di loro parla di concetti in astratto, ma in modo estremamente concreto e sensato di nipoti, di timidezza, di stare sul palcoscenico e di gestire le relazioni in gruppo, di scazzi e calze, di guardarsi allo specchio. Non c’è un modo pulito di parlare della vita.

La maggior parte di queste donne ha saputo del progetto attraverso il CTE, Centro per Tutte le Età, e la curiosità ha giocato un ruolo fondamentale per avvicinarle: “Ho pensato, andiamo là e vediamo cosa succede”, “Quando sono arrivata (alle selezioni), ho detto: le avete chieste vecchie? E io sono vecchia!”, dice Giulia, 82 anni.

Letizia, 60: “Pensavo: cercano delle figuranti, ma saranno delle belle statuine. Non credevo di stare venti minuti in scena con le altre”.

Per alcune, in questo passaggio è stata importante confrontarsi con la dimensione familiare: Dina, 84, dolce e composta, afferma: “I miei nipoti mi hanno detto: Nonna, dobbiamo copiare da te il coraggio.”; “I figli non capivano, il più grande mi ha detto: ma tu fai teatro tutti i giorni, non c’è bisogno che vai sul palco. Poi l’ho chiesto ai nipoti. La nipotina più grande, che ha 12 anni, mi ha detto: Nonna, non tutti possono andare sul palcoscenico, tu sei la più grande qua, devi fare quello che vuoi”, conclude Silvia, 71, con grande soddisfazione.

copyright: Gianfranco Rota

L’accettazione è stata alla base del lavoro di messa in scena: con regista e coreografo, nel gruppo e, infine, per ogni singola donna.

Riguardo il lavoro teatrale, Giusy, 66, afferma: “Io avevo questa cosa del voler fare le cose perfette - impossibile, perché non eravamo delle professioniste - c’era da accettare tanta roba”. Giulia: “Ci hanno detto: bisogna sempre andare avanti, e dire sì, va bene!”.

La realtà di gruppo è stata centrale: “Abbiamo vissuto due mesi a stretto contatto, è una dimensione che ha coinvolto anche la nostra vita. Vedi mutare le relazioni fra di noi, vedi mutare tante cose” dice Anna, 69. Leda: “All’inizio queste insofferenze, questi scazzi, arrivavo a casa stanchissima per l’avere a che fare con tutto questo mondo a cui non ero abituata. Man mano ho visto che vivere le persone in questo modo ti fa cambiare atteggiamento: le accetti per quello che sono perché le conosci veramente”.

Giulia: “Ho imparato a esprimermi e a dire la mia idea. Mi sono sentita amata”.

Come si sono sentite, queste donne coraggiose e appassionate, a portare i propri corpi in scena? Ognuna di loro l’ha vissuta in modo estremamente singolare. Valentina, 58, dice: “Per me all’inizio è stato un problema, ma mi sono detta: è questo che dobbiamo rappresentare, il corpo che è cambiato e non viene più accettato. Io sono una che d’estate a fatica va in giro senza maniche, per una volta ero orgogliosa della mia bandierina sotto il braccio.”

Leda, invece, afferma: “Nella vita tante volte mi guardo allo specchio e non mi piaccio, invece sul palcoscenico esattamente il contrario. Forse quello è stato, stare assieme sul palco con tutti i nostri difetti. Mi vedevo parte di un gruppo, la vecchiaia del corpo dimenticata.”

Per Anna “era funzionale il nostro esserci, con quel corpo lì, con le nostre perplessità: metto le calze, farà freddo, compriamoci le guainette, teniamo dentro le pance…”.

“Non sempre riesci ad accettare i vari passaggi, però poi ti dici: no, mi piace essere quella che sono, e vedere anche le altre. Noi in scena eravamo autentiche - afferma Giusy - Io, diciamo che un giorno mi accetto e il giorno dopo…”.

Maria, adulta, è piuttosto tranchante: “Chissenefrega. Io sono così. Siamo unici”.

Quando raccontano ciò che questa esperienza ha lasciato loro, le stesse esatta espressioni ricorrono nelle parole di almeno due donne: “Mi sono meravigliata di me stessa” e “Possiamo fare di più”. E per il futuro? Molte sono pronte a imbarcarsi in un’altra avventura. “Ci ha caricate in modo tale che ci farebbe pure volare!” Esclama Silvia con una risata.

Si attribuisce al grande regista americano Robert Altman la seguente affermazione: “Nudi, non abbiamo più nulla da nascondere, non possiamo più nasconderci. Così ci scegliamo dei vestiti, ci travestiamo, per darci un ruolo sociale”.

Esiste da sempre una stretta correlazione tra moda e costruzione di identità personale e /o sociale. Con la prima intendiamo un insieme di elementi che rendono l’individuo unico, l’idea più profonda e intima che abbiamo di noi stessi. Non è statica ma si evolve con la crescita e i cambiamenti sociali e culturali. L’identità sociale è caratterizzata invece dal ruolo che adottiamo all’interno di un determinato contesto ambientale e dai legami creati con il gruppo. Abbigliamento come identità personale e sociale.

Quello che indossiamo ci identifica come appartenenti ad una certa classe sociale, ad uno stile di vita, ad una professione. Identifica il nostro modo di essere. Gli abiti, quindi, hanno un enorme potere simbolico perché espressione di appartenenza ad un gruppo.

La società ha un enorme influenza sull’individuo ma non è sempre evidente o tangibile, spesso pensiamo di fare scelte in autonomia e tuttavia siamo influenzati dagli altri, il giudizio social ci condiziona; vi è una lotta interiore tra quelli che sono i nostri desideri e la volontà di affermazione della nostra autostima e lo specchio esterno costituito dal giudizio degli altri. La moda viene percepita come mezzo per raggiungere obiettivi che stanno alla base del comportamento sociale, acquisire sicurezza di sé, valorizzazione di noi stessi e al contempo ricerca dell’appartenenza, il desiderio di affiliazione. Le dimensioni di cui si compone la moda sono due, uniformarsi e differenziarsi. Georg Simmel (1858-1918), filosofo e sociologo tedesco, uno dei più noti interpreti della modernità sosteneva che la moda appaga il bisogno di appoggio sociale ma contemporaneamente anche il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento.

Resta da capire se accettiamo la moda di un gruppo perché ci piace davvero, per volontà di condivisione, oppure se l’accettazione deriva dalla pressione (reale o percepita) che si subisce, se prevale perciò la paura di non essere accettati.

L’ansia di essere valutati negativamente dagli altri è un elemento da non sottovalutare. Aiuta a comprendere fenomeni come bulimia, anoressia o dismorfismo corporeo in quanto problemi non solo associati ad un disturbo dell’immagine corporea ma anche ad una elevata ansia sociale e disabilità relazionale. In questo caso l’abito è usato per gestire l’ansia che deriva dalle relazioni con gi altri (Gaia Vincenzi, “L’abito non mente”, Foschi Editore 2018).

L’accettazione del proprio corpo è alla base della definizione della nostra identità. Gli abiti sono il mezzo attraverso il quale rendere visibile a tutti chi siamo veramente. Dobbiamo riappropriarci del nostro corpo, liberarci dalle pressioni sociali spesso vissute come un diktat dal quale è impossibile sottrarsi, è necessario trovare il coraggio di piacersi. Piacersi significa seguire le proprie inclinazioni, vestirsi senza le limitazioni imposte da stereotipi di genere, indossare ciò che è più affine alla propria identità e al proprio stile di vita. Senza arrivare ad affermare una vera e propria assenza di genere, il focus dovrebbe essere spostato sull’individuo e sul fatto che la società nel suo insieme dovrebbe evitare di utilizzare il genere come principio di differenziazione e/o discriminazione.

Se facciamo un passo indietro dobbiamo considerare che il concetto di “unisex” è esistito almeno a partire dagli anni Sessanta e poi per tutti i Settanta, termine creato per esprimere la liberazione dal maschile e dal femminile tipico della controcultura di quel decennio; la sua naturale evoluzione è la moda senza genere cosiddetta “gender neutral”, fatta di quei capi potenzialmente senza categoria o etichetta, adatti a chiunque.

Quali termini vengono in mente pensando alle suore? Modeste, castigate, secondarie? Chi non è credente o ha un rapporto conflittuale con il clero e la Chiesa potrebbe pensare anche a “sottomesse, superflue, autolesioniste”.

È innegabile, infatti, che la figura della suora sia vista come marginale, se non addirittura insignificante, sempre subordinata al lavoro del religioso uomo, che nell’immaginario collettivo suscita un rispetto maggiore, essendo percepito come “colui che fa”: è il sacerdote che dice messa, che confessa i fedeli, che visita le case dei parrocchiani per la benedizione pasquale…

Eppure, al giorno d’oggi, le suore nel mondo sono circa 700.000, vale a dire i due terzi della Chiesa cattolica, perché quindi questa disparità di percezione?

Certo, per definizione tutte le donne, all’interno della società, vengono tendenzialmente intese come esseri con ruoli precisi e da cui ci si aspetta che stiano sempre “un passo indietro”, ma nei confronti delle suore entra in gioco un pregiudizio ulteriore, una spersonalizzazione più profonda, come se, una volta indossato quel velo, rinunciassero anche alla loro dimensione femminile.

In quest’ottica “Il secondo piano”, l’ultimo romanzo di Ritanna Armeni (edito da Ponte alle Grazie), attua un’operazione importantissima. Innanzitutto l’autrice narra, con il suo stile estremamente scorrevole e delicato, di una delle piccole storie a oggi quasi dimenticate, ma che hanno contribuito a fare la grande Storia con la s maiuscola: durante la Seconda guerra mondiale, alla periferia di Roma, le suore francescane della Misericordia accoglievano e nascondevano al secondo piano del convento famiglie ebree sfuggite al rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943, mentre nei locali adiacenti ospitavano un’infermeria tedesca.

Non solo questa è una vicenda realmente accaduta, che Armeni ha potuto ricostruire grazie all’incontro con uno dei bambini salvati dalle consorelle e alla lettura del diario della madre superiora dell’epoca, ma non è stata un caso isolato: vengono citati diversi altri conventi in cui gli ebrei potevano trovare rifugio, in maniera più o meni efficace e per periodi più o meno lunghi, non perché quello dell’accoglienza fosse un ordine impartito “dall’alto”, ma per semplice senso di carità.

La Chiesa cattolica, infatti, all’epoca sotto la guida del pontefice Pio XII, non si era espressa esplicitamente sull’atteggiamento da tenere in certe situazioni, il che rende quella delle francescane della Misericordia e di tutte le altre religiose una scelta libera, un puro atto d’amore e di pietà verso il prossimo.

Portando alla luce questa storia straordinaria, l’autrice conferisce alle suore prima di tutto un’identità femminile – ponendole in netto contrasto con i pregiudizi nutriti nei loro confronti dal sacrestano Remo, che le giudica immutabili, estranee agli avvenimenti del mondo esterno, morigerate e deboli – e in secondo luogo un’identità umana, riconoscendole come esseri senzienti, fedeli alla scelta fatta prendendo i voti, ma capaci di seguire la propria coscienza e il proprio senso del giusto, pur non avendo la certezza che sia in linea con le direttive dell’istituzione a cui appartengono.

L’idea che Ritanna Armeni vuole trasmettere è che l’essere suore sia qualcosa che dà, non qualcosa che toglie, qualcosa che permette, non che limita, una considerazione che ci invita a fare ancora oggi, per scalfire ignoranza e pregiudizi.

Uno stile limpido e senza sbavature. Per narrare una storia intrisa di delicatezza ma capace di cogliere con precisione anche tutta la durezza che si annida nelle pieghe della vita.

L’amicizia tra i due protagonisti tredicenni, Rémi e Léo, è intensa, fatta di corse a perdifiato, gare in bicicletta e giochi di fantasia in aperta campagna, di storie sussurrate la notte quando si resta a dormire a casa dell’uno o dell’altro. Un continuum di momenti condivisi, si mangia in compagnia dei genitori, si scherza, si sogna. Rèmi suona l’oboe, Lèo ha molta fantasia:

“Li senti i passi? Stanno arrivando con le loro armature… quando te lo dico usciamo e corriamo!”

Oppure: “Stai dormendo?... Pensavo a un anatroccolo giallo che nasce uguale a tutti gli altri ma più bello, che un giorno incontra un ramarro bizzarro e decidono di mettersi in viaggio insieme, finchè raggiungono un trampolino e l’anatroccolo salta e arriva fino alle stelle…”

E ancora: “Diventerò il tuo manager, viaggeremo e diventeremo super ricchi… da quale Paese vuoi cominciare? Puoi scegliere!”

Rémi si diverte ad assecondare Léo. Léo si bea di ammirare e stupire Rémi. Insieme sono felici.

Inseparabili. Fino all’inizio della scuola, il passaggio alle superiori, dove il clima idilliaco delle vacanze estive – espresso con una fotografia incantevole che cattura la gioia dell’estate e ritrae l’innocenza dei due ragazzi letteralmente immersi nel mare variopinto dei fiori – muta. Cambia nel momento in cui la relazione fra i due amici viene guardata con gli occhi dei nuovi compagni.

“Siete insieme voi due?” chiede una compagna di classe.

“Siamo superamici, come fratelli” risponde immediato Léo.

“Non siete una coppia?” incalza la ragazza “Forse non ne siete consapevoli.” “Ma no, certo e sicuro!” taglia corto Léo.

Tanto basta, unito a qualche commento più pesante, a rendere Léo più cauto nella fisicità e vicinanza con Rémi, a spingerlo ad essere più socievole con altri, addirittura a entrare nella squadra di hockey per affermare una sorta di virilità. Sono i codici non detti né scritti, ma introiettati, che Léo scopre di conoscere e adotta per proteggere la propria accettazione da parte del gruppo. Un cauto, sofferto ma progressivo, distanziamento da Rèmi. Quest’ultimo lo percepisce subito, cerca di combatterlo, di trattenere Léo vicino – “Close” appunto – e alla fine non accetta di perdere l’amico e si toglie la vita.

La comunità è allibita, i genitori distrutti dal dolore. Léo prosegue la sua vita – la scuola, gli allenamenti, l’aiuto nell’attività famigliare di coltivazione dei fiori – decidendo di resistere al lutto, di non manifestare il proprio profondo turbamento. Le stagioni si susseguono quasi a invocare una naturalezza che invece non c’è più, perché la vita di Léo è sconvolta dalla mancanza di Rémi.

L’autore – Dhont è regista e sceneggiatore - riesce in questa seconda parte del film a rendere in modo efficace l’ulteriore sforzo di Léo per assecondare i codici del senso comune e continuare a soffocare i propri sentimenti, prima l’affetto verso Rémi presente e ora, coerentemente, il dolore della sua assenza. Solo l’intensificarsi delle scene di allenamento sulla pista di ghiaccio di hockey ci dà la misura del progressivo cedimento interiore del ragazzo. Léo infatti sembra cercare sicurezza nell’equipaggiamento di questo sport, conferme nella fisicità di questo agone, invece perde progressivamente energia e equilibrio fino a fratturarsi un braccio, un meccanismo che abbiamo già visto negli allenamenti estenuanti di danza classica della protagonista del film “Girl”, precedente opera di Dohnt.

Parallelamente, le scene notturne in cui Léo si rifugia nel letto del fratello maggiore, con inquadrature che rivelano atteggiamenti e posture dei corpi identiche a quelle assunte in compagnia di Rémi, fotografano il disagio crescente di Léo che finalmente una notte riuscirà a dire al fratello: “Mi manca”.

Magistrale anche la narrazione dei rari ma intensi contatti con la madre di Rémi, che non si rassegna, cerca una ragione del gesto estremo del figlio, e va a incontrare Lèo durante un allenamento. Anche Léo si avvicina talvolta alla casa di Rémi per coccolare il cane dell’amico oppure sedersi semplicemente sui gradini dell’ingresso; in un’occasione beve qualcosa in cucina con la donna e torna nella stanza di Rémi. Ogni volta tra loro scambi affettuosi ma trattenuti, dialoghi asciutti che sottendono domande non proferite e sortiscono risposte scarne, una comunicazione verbale bloccata. E la macchina da presa sempre ravvicinata – “Close” – ai visi degli interpreti, è usata per registrarne ogni scarto nel tenace tentativo di reprimere il dolore. Allo stesso modo lo spettatore è teso nello sforzo di raccogliere le minuscole increspature dell’anima, i sentimenti di Léo, tanto quanto il ragazzo a trattenerli. Grande l’espressività dell’intreprete, Eden Dambrine.

Infine, dopo averci provato più di una volta, Léo si recherà dalla donna al lavoro in una nursery di ospedale – quanta feroce tristezza nel vederla accudire i neonati – e dirà quello che ha dentro: “È stato a causa mia. È colpa mia. L’ho respinto.” Un’ammissione lucida e severa. Troppo forse, giacchè non tiene conto del peso dei condizionamenti.

Dopo il successo dell’esordio con “Girl” – Camera d’or a Cannes nel 2018 per aver raccontato con acutezza il desiderio di transizione sessuale di un giovane da maschio a femmina– il trentaduenne regista Lukas Dhont conferma una sensibilità straordinaria verso il tema dell’identità sessuale e affettiva. Lo fa con una maestria che si rivela nella misura sia della sceneggiatura – non una parola di troppo né verso il melodramma, né verso la polemica – sia nella finezza delle scelte registiche. Oltre alle scene en plein air che rendono in modo acuto la gioia e l’innocenza di questa amicizia (l’Età dell’Oro), e quelle del lavoro fisico nella terra con cui Léo cerca di colmare il vuoto dell’assenza (l’età del Ferro), sono mirabili gli intensi primi piani che leggono la mimica facciale, la qualità della luce e la limpidezza dei colori, così come le tonalità rossastre negli interni notturni che disegnano i personaggi in accesi chiaroscuri.

Il film si chiude con Léo che cammina tra i fiori alti, di spalle, si gira e in realtà guarda in camera, guarda noi spettatori, ed è una chiamata, un sollecito a comprendere e a non sottrarci. Pochissimi secondi e il ragazzo torna a darci le spalle, incamminandosi solo.

Storia di un’amicizia incompresa, di una relazione omosessuale nascente, di una separazione, educazione sentimentale, coming of age… “Close” è soprattutto la denuncia assordante, anche se non gridata, di due interiorità lacerate. La denuncia delle convenzioni che fanno paura e reprimono i sentimenti, dello stigma sottile e feroce che limita la libertà d’espressione e uccide l’innocenza.

Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
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